IL TUMORE DELLA PROSTATA
EPIDEMIOLOGIA
L’adenocarcinoma prostatico è il cancro più diagnosticato nei paesi occidentali ed occupa, in ordine di incidenza su scala mondiale, il quarto posto tra le neoplasie maligne maschili. La sua incidenza varia ampiamente tra le diverse popolazioni così come varia notevolmente anche l’andamento della malattia. Il valore annuale d’incidenza più basso lo incontriamo in Asia (1.9 casi ogni 100.000 abitanti a Tianjin, in Cina) ed il più alto invece appartiene al Nord America ed alla Scandinavia, particolarmente alto negli Afro-Americani (272 casi ogni 100.000 abitanti) (Quinn and Babb). Così come si è verificato negli Stati Uniti, l’incidenza del cancro della prostata in moltissime nazioni è notevolmente aumentata a partire dagli anni ’90; una buona percentuale di questo incremento si spiega con l’introduzione del PSA screening (Gronberg, 2003). Anche la mortalità è variabile spostandoci tra i diversi paesi, essendo questa massima in Svezia (23 su 100.000 ogni anno) e minima in Asia (<5 su 100.000 ogni anno in Giappone e Cina). L’adenocarcinoma prostatico raramente viene diagnosticato in soggetti di età inferiore ai 50 anni, essendo questa categoria rappresentata solo dallo 0.1%. Il picco d’incidenza lo troviamo nella fascia d’età compresa tra i 70 ed i 74 anni, con un 85% di soggetti di età superiore ai 65 anni (Ries et al). Agli 85 anni la possibilità di un cancro della prostata diagnosticabile clinicamente oscilla tra lo 0.5% ed il 20% nonostante vi sia evidenza autoptica di lesioni microscopiche in circa il 30% di soggetti nella quinta decade, 50% nella sesta ed addirittura 75% in soggetti con età superiore agli 85 anni (Sakr et al; Gronberg, 2003). Inoltre l’introduzione del PSA screening ha causato un importante cosiddetto “age migration effect”; l’incidenza dell’adenocarcinoma prostatico in uomini dai 50 ai 59 anni è aumentata del 50% tra il 1989 ed il 1992 (Hankey et al).
DIAGNOSI
Durante i decenni precedenti, oltre alle variazioni a carico dell’incidenza e della mortalità del adenocarcinoma della prostata, c’è stato anche un sostanziale slittamento verso stadi della malattia con prognosi più favorevole alla presentazione in uomini alla prima diagnosi della malattia. Questo slittamento è da attribuirsi soprattutto, se non esclusivamente, all’introduzione del PSA screening (Mettlin et al). A questo esame, peraltro, si deve l’incremento dell’incidenza dei cancri prostatici a diffusione ancora loco-regionale e la diminuzione dell’incidenza invece di cancri prostatici ormai metastatizzati (Newcomer et al). Sebbene le cause specifiche che portano all’insorgenza ed alla progressione dell’adenocarcinoma della prostata siano sconosciute, ci sono dati che suggeriscono la compartecipazione di componenti genetiche e ambientali tanto per l’origine quanto per l’evoluzione della malattia. L’epidemiologia classica e quella molecolare hanno individuato una serie di potenziali fattori di rischio associati allo sviluppo del cancro della prostata. Un numero più che sufficiente di evidenze epidemiologiche suggerisce che il cancro della prostata abbia componenti sia familiari che genetiche. Va detto che il primo studio al riguardo è stato pubblicato a metà del XX secolo e asseriva che il rischio di sviluppare un cancro della prostata fosse decisamente più alto nei parenti di primo grado di un paziente affetto dal suddetto cancro (Woolf ). Successivi casi-controllo e studi di coorte hanno confermato tale osservazione (Eeles et al). Studi su gemelli hanno inoltre suggerito una componente genetica, con una maggiore concordanza tra gemelli monozigoti piuttosto che tra gli eterozigoti (Ahlbom et al; Gronberg et al, 1994; Page et al). Il rischio relativo risulta quindi correlato al numero di membri della famiglia affetti, al loro grado di parentela, ed all’età alla quale la malattia insorge (Bratt). Per fini puramente investigativi, il cancro della prostata potrebbe essere convenzionalmente suddiviso in tre categorie:
- Sporadico 85%
- Familiare 10%
- Ereditario 5%
Quello sporadico è quel cancro che insorge in soggetti con una storia familiare negativa. Il familiare si riferisce invece a quei soggetti con uno o più parenti affetti dalla malattia. L’adenocarcinoma della prostata ereditario è definibile come un cancro familiare particolare e cioè che si verifica in tre o più soggetti dello stesso nucleo familiare o in tre generazioni consecutive o in due o più soggetti con una diagnosi precedente ai 55 anni di età (Carter et al, 1993). L’esistenza di un effettivo adenocarcinoma prostatico ereditario ci viene suggerita dalle seguenti osservazioni epidemiologiche:
- Parenti di soggetti con diagnosi prima dei 55 anni hanno un rischio maggiore di sviluppare la malattia rispetto a parenti di soggetti di età maggiore.
- Il numero di familiari affetti e della loro età all’insorgere della malattia sono i più importanti determinanti del rischio tra i parenti.
L’infiammazione cronica unita alla proliferazione cellulare volta al rimpiazzo del tessuto danneggiato contribuisce allo sviluppo di tumori maligni infezione-correlati di colon, esofago, vescica e fegato (Coussens and Werb; Platz and De Marzo, 2004). Dati epidemiologici, istologici e genetici suggeriscono che un processo simile potrebbe essere alla base del cancro della prostata.
Numerose evidenze propongono una possibile eziologia infettiva per il cancro della prostata. Esaminando 34 studi caso-controllo, due meta-analisi hanno ritenuto come statisticamente significativa l’associazione tra il cancro prostatico ed una storia di infezione trasmessa sessualmente (rischio relativo=1.4) o una prostatite (odds ratio=1.57) (Dennis and Dawson, 2002; Dennis et al, 2002b). A supportare questa ipotesi vi sono studi che dimostrano l’associazione positiva tra anticorpi anti-treponema, anti-HPV, anti-HSV 8 ed il carcinoma prostatico (Platz and De Marzo, 2004). Inoltre due studi hanno dimostrato la presenza di patogeni virali come CMV e HPV in tessuto prostatico umano (Zambrano et al; Samanta et al).
Agenti ossidanti derivanti dall’infiammazione, non vedendo degna opposizione nelle ormai compromesse difese cellulari, potrebbero dare inizio alla carcinogenesi. Lo stress ossidativo è mediato da radicali dell’ossigeno e nitrogeni che legano il DNA e ne inducono mutazioni; tale stress, di natura tanto endogena quanto esogena, è implicato nell’accumulo di quei danni al DNA che si verificano con l’invecchiamento e che inevitabilmente conducono alla trasformazione maligna (Coussens and Werb). Un’analisi dei geni spesso mutati in soggetti affetti da cancro della prostata (prostate cancer susceptibility genes) suggerisce che i difetti sia acquisiti che ereditari delle difese cellulari nei confronti delle infezioni e degli agenti ossidanti possono tradursi nello sviluppo di un tumore maligno della prostata. In studi epidemiologici molecolari del cancro della prostata, l’associazione di biomarkers misurati nel sangue o in altri tessuti è valutata in relazione all’incidenza o alla mortalità. Questi biomarkers comprendono composti presenti nella dieta, contaminanti ambientali e sostanze le cui concentrazioni nell’organismo sono in parte ereditariamente determinate.. Gli androgeni influenzano lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del tessuto prostatico; ne controllano tanto la proliferazione quanto la differenziazione. C’è il sospetto, peraltro, che nell’arco di una vita, spostandoci da individuo ad individuo, all’aumentare delle concentrazioni di androgeni aumenti il rischio di sviluppare un cancro prostatico. A supportare questa tesi c’è l’elevata incidenza di cancro prostatico osservata nei soggetti Afro-Americani i quali, come suggerito da uno studio, presentano una concentrazione di testosterone circolante più alta del 15% rispetto a soggetti di razza bianca ed inoltre una più alta attività della 5α-reduttasi (rilevabile valutando i livelli dei metaboliti degli androgeni come il diidrotestosterone) rispetto ai Giapponesi (Ross et al, 1986, 1992, 1998). Privando la prostata per un lungo periodo dell’esposizione agli androgeni, sembra si protegga questa ghiandola dall’evoluzione in senso neoplastico. Ciononostante, una relazione dose-risposta tra i livelli di androgeni e il rischio di cancro non è stata ancora stabilita. Inoltre non risulta ancora evidente se concentrazioni androgeniche normali siano associate al rischio di cancro della prostata. (Hsing; Chen et al; Parsons et al; Platz et al, 2005).
Donna R. Coffman ha valutato il trattamento con testosterone ed i suoi effetti sul cancro prostatico. Questo trattamento tende a basarsi sull’utilizzo di inibitori dell’enzima 5α-reduttasi (in particolare del tipo 2, isoenzima espresso prevalentemente nell’epitelio prostatico ed in altri tessuti dei genitali; il tipo 1 è invece espresso primariamente in fegato e cute ed in minima parte nella prostata) come la finasteride. Tale enzima converte il testosterone in diidrotestosterone, ed è codificato dal gene SRD5A2 (il polimorfismo di SRD5A2 ha conseguenze funzionali sia in vitro che in vivo) (Makridakis and Reichardt).
Spostandoci all’interno dell’intervallo terapeutico che va dalla riduzione dei livelli di testosterone fino alla castrazione chimica, notiamo un evidente ritardo nella progressione di un cancro prostatico ormai già instaurato; d’altro canto però, non vi sono prove inconfutabili che concentrazioni maggiori si accompagnino ad un rischio maggiore di sviluppare un cancro prostatico. Alcune evidenze suggeriscono che bassi livelli di testosterone possano accompagnarsi allo sviluppo di un cancro prostatico più aggressivo (malattia con evoluzione extraprostatica), sebbene il meccanismo d’azione e la prognosi non siano noti.
I dati a nostra disposizione sono inadeguati per permettere una definitiva determinazione della relazione tra testosterone e cancro prostatico (Donna R. Coffman, MD). Gli estrogeni sono stati indicati come agenti oncoprotettori grazie alla loro capacità di inibizione della crescita epiteliale anche se aumentano il rischio di infiammazione in concomitanza con gli androgeni (Naslund et al) o di produzione di intermedi metabolici cancerogeni (Yager). La Vitamina D (1,25-diidrossicolecalciferolo) è una vitamina essenziale che fa parte della superfamiglia dei composti dotati di nucleo steroideo. Viene introdotta nell’organismo con la dieta ed è attivata attraverso i raggi solari a livello cutaneo. L’ipotesi che la Vitamina D sia in un certo senso collegata all’insorgenza ed all’evoluzione del cancro della prostata scaturisce dalle seguenti osservazioni (Peehl et al):
- Soggetti che vivono a latitudini più settentrionali, con una minore esposizione agli UV d’origine solare, mostrano prognosi peggiore di cancro della prostata (maggiore mortalità).
- Il cancro prostatico si verifica più frequentemente in soggetti anziani, nei quali il deficit di Vitamina D è più comune sia a causa della minore esposizione ai raggi solari che alla diminuzione età-correlata dell’attività dell’idrossilasi responsabile dell’attivazione della Vitamina D.
- Gli Afro-Americani, caratterizzati da maggiori livelli di melanina nella cute, mostrano, proprio a causa del citato pigmento, un blocco delle radiazioni UV e quindi dell’attivazione cutanea della Vitamina D; sono anche coloro che presentano le maggiori incidenza e mortalità a livello mondiale del cancro della prostata.
- L’assunzione giornaliera con la dieta di prodotti ricchi in Calcio, che deprime i livelli serici di Vitamina D, si associa con un aumento del rischio di sviluppare un cancro della prostata.
- Gli abitanti del Giappone, la cui dieta abbonda in Vitamina D derivante dal pesce, hanno incidenza e mortalità inferiori di cancro prostatico.
Inoltre, le cellule del cancro prostatico esprimono il Recettore della Vitamina D, e molti studi hanno dimostrato l’effetto antiproliferativo della Vitamina D sulle linee cellulari delle suddette cellule inducendone un arresto del ciclo cellulare (Krishnan et al, 2003). Va detto però che un gran numero di studi hanno dimostrato un’assente o comunque molto debole associazione tra i livelli di Vitamina D ed il rischio di sviluppare un cancro della prostata (Gann et al; Chan et al; Freedman et al; Platz et al, 2004). Questi risultati tra loro contrastanti riguardo la Vitamina D, il Calcio ed il rischio di cancro della prostata, potrebbero essere spiegati dalle varianti del Recettore della Vitamina D. Polimorfismi di questo recettore che si traducono in una sua minore attività sono stati associati ad un maggiore rischio di cancro della prostata e di ripresa biochimica della malattia dopo intervento di prostatectomia radicale (Mederios et al; Oakley-Girvan et al; Williams et al). Ritenendo l’atto sessuale una possibile occasione per venire a contatto con agenti infettivi, l’attività sessuale può essere interpretata come un fattore di rischio per il cancro prostatico. Il fumo di sigaretta potrebbe essere considerato un fattore di rischio per il cancro prostatico a causa della quantità di Cadmio in esso presente; questo metallo aumenta il livello degli androgeni circolanti e comporta un notevole stress ossidativo sulle cellule. Studi sia caso-controllo che di coorte hanno condotto a conclusioni contrastanti e nessuno ha stabilito una reazione dose-risposta ben definita, sebbene alcuni studi abbiano suggerito un’associazione con stadi più avanzati alla diagnosi e con un peggioramento della prognosi (Bostwick et al). Studi descrittivi epidemiologici indicano che alcuni fattori alimentari possono influire sull’insorgenza e sullo sviluppo del cancro della prostata (Bostwick et al). L’andamento dell’incidenza e della mortalità del cancro prostatico nel mondo si correla con il livello medio di introduzione di grassi con la dieta, specialmente se polinsaturi. Il loro potenziale meccanismo d’azione comprende sia lo stress ossidativo, sia le modificazioni sull’assetto ormonale dell’organismo. Alti livelli di grassi stimolano la proliferazione delle cellule del cancro prostatico sia in vitro che in vivo, e modelli animali hanno mostrato che una dieta priva di grassi riduce la crescita tumorale androgeno-dipendente nel modello di Dunning (Clinton et al; Wang et al; Aronson et al). L’obesità (individuata grazie al BMI) può essere considerata come un fattore di rischio per il cancro della prostata data la sua frequente associazione a tumori di colon e mammella e perché risulta essere spesso a carico di soggetti di mezza età (Giovannucci, 1995; Madigan et al, 1998). In caso di stadio T2 o nell’85% di tumori non palpabili diagnosticati con l’agobiopsia (stadio T1c), la maggior parte della massa tumorale è a sede periferica (McNeal, 1969; Byar et al; Epstein et al, 1994). Nei restanti casi, i tumori sono prevalentemente localizzati nella zona di transizione (periuretralmente o anteriormente). Tumori che, alla palpazione rettale sembrano essere monolaterali, si scoprono invece essere alla agobiopsia, nel 70% dei casi, diffusi bilateralmente.
Inoltre l’adenocarcinoma prostatico si presenta multifocale in più dell’85% dei casi. Data la sede della maggior parte degli adenocarcinomi, la diffusione extraprostatica tende ad essere prevalentemente posteriore e posterolaterale. A causa della mancanza di una vera e propria capsula a delimitare la prostata, è preferibile utilizzare l’espressione “estensione extraprostatica” piuttosto che “penetrazione capsulare” per descrivere una massa tumorale che si estende ai tessuti molli periprostatici (Ayala et al). Alcuni autori utilizzano il termine di “invasione capsulare” quando si ritiene che la “capsula” sia infiltrata dal tumore ma che quest’ultimo non si estende al di fuori della prostata. Adenocarcinomi localizzati perifericamente tendono a diffondere al di fuori della prostata tramite l’invasione dello spazio perineurale (Villers et al). L’invasione perineurale in soggetti trattati con prostatectomia radicale non peggiora la prognosi dato che rappresenta solo l’estensione del tumore lungo un piano con minor resistenza, e non l’invasione linfatica (Hassan and Maksem; Ng et al). Al contrario, l’invasione vascolare aumenta il rischio di ripresa della malattia dopo la prostatectomia radicale (Ferrari et al). Una maggior estensione tumorale potrebbe portare all’invasione delle vescichette seminali (si considerano coinvolte quando cellule neoplastiche hanno invaso la parete muscolare delle vescichette seminali). Solitamente l’invasione delle vescichette seminali avviene ad opera di un cancro che sta diffondendo fuori dalla prostata verso la base del glande, con una crescita che interessa i tessuti molli peri-vescichette seminali ed, eventualmente, le suddette vescichette. Sempre per raggiungere le vescichette seminali, ma in una percentuale di casi decisamente inferiore, ci potrebbe essere un’estensione diretta dalla base della prostata oppure attraverso i dotti eiaculatori (Ohori et al). L’adenocarcinoma prostatico potrebbe anche coinvolgere il retto, ponendo problemi di diagnosi differenziale con una neoplasia rettale primaria (Fry et al).
Le sedi più spesso interessate da metastasi originate da un adenocarcinoma prostatico sono le catene linfonodali e le ossa. In ordine decrescente di frequenza seguono poi i polmoni, la vescica, il fegato e le ghiandole surrenaliche. Solitamente, le dimensioni di un cancro prostatico sono correlate allo stadio di quest’ultimo. Raramente adenocarcinomi di volume inferiore agli 0.5 cm3 si estendono al di fuori della prostata, così come è altrettanto raro che tumori inferiori ai 4 cm3 abbiano invaso le vescichette seminali o abbiano metastatizzato alle catene linfonodali (McNeal, 1992). Sebbene esistano numerosi sistemi di grading dell’adenocarcinoma prostatico, quello di Gleason è sicuramente quello più universalmente accettato (Gleason et al, 1974). Secondo il sistema di Gleason, utilizzando un ingrandimento relativamente basso, si valuta lo schema ghiandolare (mentre gli aspetti citologici risultano assolutamente irrilevanti); si individuano i due modelli architetturali più rappresentati (il primo è detto “predominante” mentre il secondo è definito “secondo più prevalente”) e si assegna a ciascuno di loro un numero da 1 a 5 dove 1 si assegna agli schemi ghiandolari maggiormente differenziati e 5 a quelli più indifferenziati. Sia il predominante che il secondo più prevalente influenzano la prognosi del paziente, tant’è che lo score di Gleason si ottiene sommando i valori assegnati a ciascuno dei due. Nel caso in cui un tumore dovesse presentarsi con un solo modello istologico, per ottenere il grado Gleason si raddoppia il valore assegnato a quel modello. La scala del Gleason score oscilla dunque tra:
- 2 (1 + 1 = 2) che rappresenta un tumore massimamente differenziato
- 10 (5 + 5 = 10) che rappresenta un tumore massimamente indifferenziato
Una sorgente di markers del cancro della prostata viene sicuramente fornita dai prodotti proteici codificati dalla famiglia dei geni della callicreina umana. Originariamente, furono individuati solo tre geni:
- Il gene della callicreina pancreatico/renale umana (hKLK1) che codifica per la KLK1 o hPRK o hK1
- Il gene della callicreina umana (hKLK2) che codifica per la KLK2 o hGK-1 o hK2
- Il gene dell’Antigene Prostatico Specifico cioè il PSA (hKLK3) che codifica per il PSA o hK3
Attualmente i geni della callicreina individuati sono 15; sono tutti dislocati lungo il cromosoma 19 nella regione che va da q13.2 a q13.4, e tutti codificano per delle serina-proteasi. (McCormack; Rittenhouse et al; Diamandis et al; Lilja, 1987; Yousef and Diamandis).
Sebbene hK1 sia stato ritrovato anche in tessuti extraprostatici (come reni, pancreas e ghiandole salivari), hK2 ed il PSA sono rilasciati esclusivamente dalla ghiandola prostatica (Morris); sembra peraltro che l’hK2 abbia funzione attivatrice sul pro-PSA trasformandolo in PSA (Kumar et al; Lovgren et al; Takayama et al). Il PSA (Prostate-Specific Antigen), come dimostrato da numerosi valori comparativi tra patologie prostatiche benigne e maligne, pur essendo organo specifico, non è un marker cancro specifico (Oesterling et al, 1988; Partin et al, 1990). La funzione svolta da questa serina-proteasi androgeno-regolata è di liquefare i grumi del liquido seminale agendo sulle proteine seminogelina e fibronectina (Lilja and Laurell, 1984; Lilja, 1985; Lilja et al, 1987; McGee and Herr; Christensson et al). Il PSA è normalmente presente in basse concentrazioni nel sangue (siamo nell’ordine dei ng/ml) e vi circola in forma sia libera (dal 10% al 35%) che associata (dal 65% al 90%) a proteine (la maggior quota del PSA serico è complessata con antiproteasi ACT e macroglobuline MG) (Christensson et al; Lilja et al, 1991; Stenman et al).
L’espressione del PSA è fortemente influenzata dagli androgeni (inoltre i suoi livelli variano a seconda di razza, età e volume prostatico) (Young et al, 1991; Henttu et al, 1992).
DIAGNOSI E STADIAZIONE
Il cancro della prostata raramente si rende sintomatico prima di raggiungere uno stadio avanzato. Dunque, il sospetto di cancro, che ci indica di effettuare un’agobiopsia prostatica, viene sollevato da anormalità a carico dell’Esame Digito-Rettale (DRE) o dei livelli serici del PSA. Sebbene vi siano pareri discordanti riguardo i benefici di una diagnosi precoce, è stato dimostrato che una diagnosi precoce del cancro prostatico si consegue al meglio servendosi appunto del DRE e del monitoraggio del PSA. Al momento l’agobiopsia guidata tramite una sonda ad ultrasuoni trans rettale (Trans Rectal Ultra Sound-guided needle biopsy o TRUS-guided needle biopsy) è il metodo più attendibile per assicurare un accurato campionamento di tessuto prostatico in soggetti considerati ad alto rischio di sviluppo di un adenocarcinoma prostatico secondo i dati ottenuti dal DRE e dal PSA screening. L’obbiettivo della stadiazione è determinare l’esatta estensione della malattia per stabilire la prognosi ed il piano di gestione del paziente rifacendosi alle linee guida internazionali. Per stadiare la malattia del paziente affetto da adenocarcinoma della prostata si valutano:
- DRE
- PSA
- TRUS-guided agobiopsia
- Risonanza Magnetica Nucleare (RMN)
- Tomografia Computerizzata Assiale o Spirale (TAC o TC spirale)
- Tecniche di immagine di medicina nucleare (es. Scintigrafia)
Nella quasi totalità dei casi l’adenocarcinoma prostatico resta asintomatico nelle fasi precoci della malattia a causa della decisamente più frequente localizzazione periferica nell’ambito della ghiandola, ben distante dall’uretra. La presenza di una sintomatologia sistemica (es. dolore osseo, insufficienza renale, anemia, dimagramento, febbricola) che scaturisce da un cancro prostatico ci indirizza verso una patologia localmente avanzata o ampiamente metastatizzata.
La crescita di un cancro prostatico nel lume uretrale o nei pressi del collo vescicale può comportare una sintomatologia ostruttivo-irritativa da mancato svuotamento delle urine.
Ancora si potrebbe avere un’estensione locale tale da causare una significativa stasi urinaria con conseguente danno renale in caso di interessamento importante del trigono vescicale e degli sbocchi ureterali. Altre possibilità possono essere l’ostruzione dei dotti eiaculatori e, pur trattandosi di un’evenienza decisamente rara dopo l’introduzione del PSA screening, l’impotenza (in caso di coinvolgimento del plesso pelvico, responsabile dell’innervazione dei corpi cavernosi).
Chiaramente va considerata la sintomatologia che può scaturire da una diffusione metastatica della malattia. Metastasi a carico sia dello scheletro assiale che di quello appendicolare possono dare dolore osseo oppure un’anemia (da sostituzione del midollo osseo o da microfratture). Un edema delle estremità inferiori può essere spiegato dalla compromissione dei linfonodi pelvici o dalla compressione linfatica o delle vene iliache. Possibili ma meno frequenti sono la Fibrosi Retroperitoneale Maligna (FRM) da interessamento metastatico dei linfatici periureterali, sindromi paraneoplastiche da ghiandole endocrine ectopiche, e la Coagulazione Intravasale Disseminata (CID). Nonostante i quadri sintomatici descritti, la stragrande maggioranza dei sospetti di adenocarcinoma prostatico si basano sui dati ottenuti dal DRE e dal PSA screening. Per effettuare una diagnosi precoce di adenocarcinoma della prostata ci si serve della triade DRE, PSA serico e agobiopsia TRUS-guidata.
La combinazione di DRE e PSA serico costituisce la migliore procedura di prima linea per verificare il rischio di cancro prostatico in un soggetto; al contrario non è utilizzabile come procedura di prima linea l’agobiopsia TRUS-guidata a causa degli elevati costi e del basso valore predittivo in caso di cancro prostatico precoce (Carter et al, 1989; Ellis et al, 1994; Flanigan et al; Van Der Cruijsen-Koeter et al). La scelta di un valore soglia del PSA serico che ci raccomandi, se oltrepassato, di effettuare ulteriori indagini (come l’agobiopsia) per scartare un eventuale cancro prostatico, è alquanto delicata; infatti un valore troppo alto sottovaluterebbe il rischio effettivo in alcuni pazienti, che potrebbero quindi ricevere una diagnosi del proprio cancro prostatico quando questo ha ormai raggiunto uno stadio già avanzato; al contrario una soglia troppo bassa aumenterebbe l’esecuzione di inutili agobiopsie. Pur non essendo stato individuato il valore soglia ideale, molti clinici utilizzano come riferimento un PSA pari a 4 ng /ml per soggetti al di sopra dei 50 anni. Come già detto, l’espressione del PSA è fortemente influenzata dagli androgeni (Young et al, 1991; Henttu et al, 1992). Il PSA serico si rende detectabile alla pubertà con l’aumento dell’ormone luteinizzante (LH) e del testosterone (Vieira et al). In soggetti affetti da ipogonadismo, caratterizzati da bassi livelli di testosterone, il PSA serico potrebbe risultare diminuito per la sua minor espressione e potrebbe quindi mascherare una patologia prostatica come l’adenocarcinoma della prostata (Morgentaler et al). Evidenze scientifiche suggeriscono anche che nei soggetti obesi il PSA si presenta più basso rispetto ai soggetti non-obesi, e ciò può dunque portare a non valutare adeguatamente il rischio di una malattia prostatica. In soggetti senza Iperplasia Prostatica Benigna (IPB), il PSA tende ad aumentare circa di 0.04 ng/ml ogni anno (Carter et al, 1992b; Oesterling et al, 1993); in pazienti invece affetti da IPB, d’età tra i 60 e gli 85 anni, questo parametro aumenta annualmente di un valore compreso tra lo 0.07 ng/ml e lo 0.27 ng/ml (Carter et al, 1992b).
La patologia prostatica (cancro prostatico, IPB e prostatite) costituisce il più importante fattore alla base di un aumento del PSA serico (Wang et al; Ercole et al; Robles et al) (comunque, non in tutti i soggetti alla patologia prostatica si accompagna un incremento del PSA). Un’elevazione del PSA può verificarsi anche in caso di manipolazioni prostatiche (es. massaggio prostatico, biopsie prostatiche, resezioni trans uretrali) (Klein and Lowe).
Trattamenti volti a controllare o eradicare l’IPB o l’adenocarcinoma prostatico (es. orchiectomia, analoghi dell’ormone luteinizzante, inibitori della 5α-reduttasi, radioterapia, resezione chirurgica di tessuto prostatico) possono al contrario determinare una riduzione dei valori del PSA. Nel caso particolare degli inibitori della 5α-reduttasi, si ottiene un abbassamento di circa il 50% dei livelli serici del PSA dopo 12 mesi di terapia; inoltre questo valore si ottiene con gli inibitori sia del tipo 2 (es. finasteride) che del tipo 1 e del tipo 2 (es. duasteride) di questo isoenzima (Guess et al; Roehrborn et al). Raddoppiando quindi il valore di PSA ricavato si ottiene il “reale” valore del PSA serico di questi soggetti in trattamento da 12 mesi con inibitori della 5α-reduttasi (Andriole et al).
Stabilire delle linee guida è assolutamente indispensabile ai fini di svolgere uno screening della popolazione, screening che ci permette di evitare test non necessari e di ridurre quindi al minimo possibile i costi in termini economici. L’età alla quale lo screening dovrebbe essere cominciato, gli intervalli tra i re-screening, e l’età alla quale lo screening dovrebbe essere interrotto sono importanti per strutturare una strategia adeguata di abbattimento dei costi. L’età ottimale per cominciare lo screening per il cancro prostatico non è ancora stata determinata. Sebbene solo l’8% degli uomini di età compresa tra i 40 ed i 50 anni, di razza sia bianca che nera, con una storia familiare positiva, hanno una positività ai test di screening, il 55% di questi è effettivamente affetto da cancro prostatico (Catalona et al, 2002). L’incidenza e la mortalità del cancro prostatico aumentano all’aumentare dell’età del soggetto. Per uomini di età tra i 40 ed i 49 anni l’incidenza e la mortalità sono rispettivamente 25 e 0.6 per 100.000 uomini; questi valori diventano pari a 237 e 6.1 per 100.000 uomini rispettivamente, se i soggetti sono di età compresa tra i 50 ed i 59 anni (Surveillance, Epidemiology, and End Results Program, 2003). Dunque, la diagnosi precoce di un cancro prostatico in un soggetto al di sotto dei 50 anni potrebbe richiedere un numero maggiore di test rispetto ad un soggetto di età superiore ai 50 anni. Comunque, ci sono ragioni di credere che, test effettuati ad intervalli maggiori in soggetti di età inferiore ai 50 anni, possano rappresentare una strategia di screening efficace e non troppo dispendiosa. Gli intervalli tra i re-screening possono influenzare l’efficienza di un programma di screening; intervalli eccessivi potrebbero far sviluppare in maniera indisturbata una malattia fino al punto in cui questa risulta ormai non-curabile (può verificarsi in caso di cancri della prostata a rapida crescita); al contrario, intervalli troppo ravvicinati conducono a test non necessari e comunque non influiscono sulla prognosi della malattia.
Un buon compromesso è rappresentato da uno screening annuale in soggetti al di sopra dei 50 anni di età.
STADIAZIONE
Gli obbiettivi della stadiazione del cancro sono quelli di permettere una valutazione della prognosi e di facilitare la scelta tra le varie opzioni terapeutiche. Lo “stadio clinico” si riferisce all’analisi pre-trattamento dell’estensione della malattia servendosi di variabili come il DRE, il PSA, l’agobiopsia e le indagini radiologiche. Lo “stadio patologico” invece, si ricava dopo la rimozione della prostata, grazie ad un’attenta analisi istologica di prostata, vescichette seminali e linfonodi pelvici (se questi sono stati asportati). Si può dire quindi che lo “stadio patologico” rappresenti una stima più accurata della reale estensione della malattia ed è di conseguenza più utile per ottenere una prognosi.
L’importanza di questa stima è sottolineata dal fatto che, le sopravvivenze in soggetti con ripresa biochimica sia cancro-dipendente che cancro-non dipendente della malattia, sono entrambe inversamente proporzionali allo “stadio patologico” della malattia . I criteri patologici che permettono di predire la prognosi del paziente dopo una prostatectomia radicale sono il grado tumorale, lo stato dei margini di resezione chirurgica, la presenza di una malattia extracapsulare, l’invasione delle vescichette seminali ed il coinvolgimento dei linfonodi pelvici (Jewett; Epstein, 1990; Epstein et al, 1993a, 1993b; Partin et al, 1993a; Pound et al; Walsh and Jewett).
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Lo “stadio clinico” si valuta servendosi del sistema Whitmore-Jewett e di quello Tumore Linfonodi Metastasi (o, più brevemente, TNM).
TNM 1997 |
TNM 1992 |
Descrizione |
Whitmore-Jewett |
Descrizione |
Tx |
Tx |
La presenza del tumore primario non è stata verificata |
Nessuno |
Nessuno |
T0 |
T0 |
Non c’è evidenza del tumore primario |
Nessuno |
Nessuno |
T1 |
T1 |
Tumore non palpabile e non riconoscibile alle immagini |
A |
= TNM |
T1a |
T1a |
Tumore individuato in tessuto prelevato tramite Resezione Trans-Uretrale (RTU); 5% o meno è tumorale e lo score di Gleason < 7 |
A1 |
= TNM |
T1b |
T1b |
Tumore individuato in tessuto prelevato tramite RTU; >5% è tumorale e lo score di Gleason > 7 |
A2 |
= TNM |
T1c |
T1c |
Tumore rilevato tramite agobiopsia effettuata per elevazione del PSA serico |
Nessuno |
Nessuno |
T2 |
T2 |
Tumore palpabile limitato alla prostata |
B |
= TNM |
T2a |
|
Il tumore coinvolge un lobo o meno |
B1 |
= TNM |
|
T2a |
Il tumore coinvolge meno della metà di un lobo |
B1N |
Il tumore coinvolge più di metà lobo ed è circondato da tessuto completamente sano |
T2b |
|
Il tumore coinvolge più di un lobo |
B2 |
= TNM |
|
T2b |
Il tumore coinvolge più della metà di un lobo ma non coinvolge entrambi i lobi |
B1 |
= TNM |
Nessuno |
T2c |
Il tumore coinvolge più di un lobo |
B2 |
= TNM |
T3 |
T3 |
Massa tumorale palpabile con estensione extraprostatica |
C1 |
Tumore con diametro < 6 cm |
T3a |
T3a |
Estensione unilaterale extracapsulare |
C1 |
= TNM |
T3b |
T3b |
Estensione bilaterale extracapsulare |
C1 |
= TNM |
T3c |
T3c |
Il tumore invade le vescichette seminali |
C1 |
= TNM |
T4 |
T4 |
Il tumore invade le strutture adiacenti (non le vescichette seminali) |
C2 |
= TNM |
T4a |
T4a |
Il tumore invade il collo vescicale e/o il retto |
C2 |
= TNM |
T4b |
T4b |
Il tumore si fissa alla parete pelvica |
C2 |
= TNM |
N+ |
N+ |
Coinvolgimento dei linfonodi regionali |
D1 |
= TNM |
Nessuno |
Nessuno |
Nessuno |
D0 |
Fosfatasi Acida Prostatica (FAP) elevata |
Nx |
Nx |
L’interessamento linfonodale non è stato verificato |
Nessuno |
Nessuno |
N0 |
N0 |
Non vi sono metastasi linfonodali |
Nessuno |
Nessuno |
N1 |
N1 |
Metastasi in un singolo linfonodo regionale con dimensioni ≤ 2 cm |
D1 |
= TNM |
N2 |
N2 |
Metastasi in un singolo linfonodo regionale con 2cm≤dimensioni≤5cm o in più linfonodi regionali comunque con dimensioni ≤ 5 cm |
D1 |
= TNM |
N3 |
N3 |
Metastasi ai linfonodi regionali con dimensioni ≥ 5 cm |
D1 |
= TNM |
M+ |
M+ |
Metastasi a distanza |
D2 |
= TNM |
Mx |
Mx |
La presenza di metastasi a distanza non è stata verificata |
Nessuno |
Nessuno |
M0 |
M0 |
Non si riscontrano metastasi a distanza |
Nessuno |
Nessuno |
M1 |
M1 |
Metastasi a distanza |
D2 |
= TNM |
M1a |
M1a |
Metastasi presenti in linfonodi non regionali |
D2 |
= TNM |
M1b |
M1b |
Metastasi ossee |
D2 |
= TNM |
M1c |
M1c |
Metastasi a distanza che interessa una qualsiasi altra struttura |
D2 |
= TNM |
Nessuno |
Nessuno |
Nessuno |
D3 |
Malattia refrattaria alla terapia ormonale |
Servendosi della classificazione TNM, risulta possibile effettuare una stratificazione dei pazienti affetti da cancro della prostata trattati con prostatectomia radicale che prevede tre classi di rischio:
- Soggetti a basso rischio: stadio da T1c a 2a, con PSA ≤ 10 ng/ml, con Gleason ≤ 6
- Soggetti a rischio intermedio: stadio T2b o 10 ng/ml ≤ PSA ≤ 20 ng/ml o Gleason = 7
- Soggetti ad alto rischio: stadio T2c o PSA > 20 ng/ml o Gleason ≥ 8
Le percentuali di una ripresa di malattia a 10 anni dalla prostatectomia radicale sono rispettivamente pari all’83%, 46% e 29% (D'Amico et al).
TERAPIA DELL’ADENOCARCINOMA PROSTATICO LOCALMENTE AVANZATO
Il miglioramento in campo di diagnosi precoce si è tradotto, in termini statistici, in un aumento dell’incidenza delle diagnosi di cancro prostatico; peraltro, quest’ultimo, tendeva ad essere individuato in stadi a prognosi decisamente migliore; l’attuale PSA screening permette, nella stragrande maggioranza dei pazienti, una diagnosi quando il cancro non è ancora palpabile (stadio clinico T1c). Ciononostante un 10% dei soggetti malati riceve la diagnosi di adenocarcinoma prostatico quando questo ha già raggiunto uno stadio localmente avanzato (T3-4 Nx/+ M0).
Tradizionalmente, l’identificazione di individui con una malattia localmente avanzata era basata sull’esame clinico (es. DRE) e sulla chiara evidenza di una diffusione oltre la capsula prostatica (stadio clinico T3a), con eventuale coinvolgimento delle vescichette seminali (stadio clinico T3b) o degli organi adiacenti (stadio clinico T4) (Greene et al). A questo punto bisognerebbe precisare cosa si intenda quando si parla di malattia localmente avanzata; in termini di stadio clinico, si tratta di un adenocarcinoma prostatico T3-4 N± M0, e cioè di un cancro che ha superato la capsula prostatica fino al coinvolgimento delle vescichette seminali e/o degli organi adiacenti, con o senza metastasi linfonodali, ma sicuramente privo di meta statizzazione a distanza.
PROSTATECTOMIA RADICALE
La prostatectomia radicale è stata il primo trattamento utilizzato per il cancro prostatico e la si pratica da oltre 100 anni (Kuchler; Young, 1905). Nonostante la veneranda età, continua ad essere considerata il “gold standard” terapeutico, a causa anche della raggiunta consapevolezza che la terapia ormonale e la chemio-terapia non sono mai curative e che non tutti i cancri prostatici possono essere eradicati con radiazioni o con qualunque altra forma fisica di energia, persino se il tumore risulta confinato alla ghiandola prostatica. Il vantaggio maggiore della prostatectomia radicale è che, se eseguita da operatori esperti e senza errori, offre notevoli margini di guarigione con un minimo danno inflitto ai tessuti limitrofi alla ghiandola (Han et al; Hull et al). Permette una accurata analisi patologica del campione chirurgico prelevato. Inoltre, situazioni di fallimento terapeutico vengono identificate più rapidamente ed il decorso post-operatorio è decisamente meno problematico che in passato. Solo una piccola quota di pazienti necessita di una trasfusione di sangue non autologo. La degenza ospedaliera solitamente va da uno a tre giorni, e la mortalità operatoria è alquanto rara attualmente. Infine, la prostatectomia radicale riduce in maniera significativa la progressione locale e metastatica e migliora la prognosi dei pazienti (Bill-Axelson et al). Possibili svantaggi della prostatectomia radicale sono invece l’inevitabile degenza ospedaliera, la possibilità di un’incompleta resezione del tumore (se l’intervento non è eseguito adeguatamente o se il tumore oltrepassa la capsula prostatica) e l’elevato rischio di disfunzione erettile ed incontinenza urinaria.
APPROCCI CHIRURGICI ALLA PROSTATECTOMIA RADICALE
- Perineale
L’approccio perineale è da ritenere un valido approccio chirurgico quando eseguito da un chirurgo esperto in tale procedura (Scolieri and Resnick). È accompagnata solitamente da minori perdite ematiche e da un’inferiore durata dell’intervento rispetto all’approccio retro pubico. Con questa tecnica risulta però impossibile accedere ai linfonodi pelvici e quindi poterli asportare. C’è una maggiore tendenza ad occasionare lesioni del retto, ed, in alcuni casi, insorge incontinenza fecale (che non si verifica con gli altri approcci chirurgici) (Bishoff et al). Risulta inoltre più complicato, con questa metodica, risparmiare i nervi cavernosi, con conseguente aumento del rischio della disfunzione erettile.
- Retropubico
L’approccio retropubico è preferito dalla maggior parte degli urologi per la loro familiarità con l’anatomia chirurgica. Con questa tecnica si riducono la possibilità di danneggiare il retto e l’incontinenza fecale postoperatoria; si rende possibile la linfoadenectomia pelvica e l’asportazione prostatica senza andare a ledere la rete neuro vascolare. Inoltre, servendosi di tale metodica, diminuisce il rischio di lasciare margini di resezione chirurgica positivi.
- Laparoscopico
Si ritiene che la prostatectomia laparoscopica possa presentare un minore sanguinamento, una maggiore visibilità, un minore dolore postoperatorio, ed una minore convalescenza rispetto ad un intervento con apertura standard. Ciononostante, questi risultati sono solitamente meno rilevanti per un paziente nei confronti della cura del suo cancro, del mantenimento della funzione erettile e della profilassi da alcune complicanze.
La prostatectomia laparoscopica può essere effettuata con un accesso trans-peritoneale o extra-peritoneale. Il primo accesso facilita la linfoadenectomia ma è correlato ad un aumentato rischio di complicanze come lesioni vascolari, ostruzione intestinale post-operatoria, ascite di origine urinaria.
L’emostasi a livello della rete neuro vascolare può essere difficilmente ottenibile in tempi brevi ed in maniera soddisfacente in caso di prostatectomia laparoscopica a causa delle difficoltà che sussistono nell’apporre rapidamente suture e/o clips emostatiche per via laparoscopica.
Inoltre il calore emesso dal cauterizzatore elettrico può irreversibilmente danneggiare i nervi cavernosi. Infine, sebbene la perdita intra-operatoria di sangue sia minore con questo approccio chirurgico, potrebbe insorgere un sanguinamento postoperatorio adducibile alla somministrazione di una pressione positiva nel campo operatorio (Rassweiler et al).
- Robotico
Facilita di molto il lavoro del chirurgo, soprattutto per ciò che riguarda le suture e le anastomosi vescico-uretrali. Questa tecnica viene riconosciuta come meno invasiva e tecnologicamente più avanzata, con meno dolore post-operatorio e con una degenza ospedaliera ridotta. Non è stato ancora dimostrato se questo tipo di prostatectomia laparoscopica permetta di ottenere risultati più soddisfacenti di quelli ottenuti con la tradizionale.
DIAGNOSI DI RIPRESA DELLA MALATTIA
L’aumentata incidenza dell’adenocarcinoma prostatico, giustificata dagli attuali mezzi diagnostici, si è tradotta in un corposo aumento del numero di prostatectomie radicali per pazienti con un cancro localizzato. Diviene quindi indispensabile riconoscere prima possibile la presenza di un’eventuale ripresa della malattia per stabilire una quanto più veritiera prognosi. Rimane comunque il problema, data la variabilità delle caratteristiche del cancro prostatico, di trovare un metodo diagnostico che risulti utile per predire il decorso clinico dei diversi pazienti; studi di genetica molecolare, utilizzando regioni micro satellite, hanno dimostrato la grande incostanza nelle variazioni genomiche, nell’ambito dei differenti foci neoplastici. Markers prognostici tradizionali, come lo stadio clinico ed il PSA pre-trattamento, si sono dimostrati di limitato valore predittivo prognostico per il singolo paziente. Circa un 50-60% dei soggetti trattati con prostatectomia radicale per adenocarcinoma localmente avanzato hanno una malattia microscopica non organo-delimitata ed una significativa parte di questi va incontro ad una ripresa di malattia. È quindi necessario sviluppare biomarkers molecolari in grado di predire la progressione locale o la potenziale diffusione metastatica, in pazienti affetti da adenocarcinoma prostatico trattati con prostatectomia radicale. In questi pazienti, il numero di cellule metastatiche o residuali è così piccolo che le metastasi occulte o la diffusione locale occulta non possono essere rilevati dalle indagini radiologiche o istopatologiche convenzionali. Metodi per l’individuazione di una diffusione della malattia tanto nascosta devono assolutamente essere più sensibili e più specifici di quelli attualmente in uso. Tecniche immunoistochimiche ed immunocitochimiche, che si servono di anticorpi specifici diretti contro antigeni epiteliali o tumorali, costituiscono dei validi mezzi per il riconoscimento della presenza di cellule tumorali occulte. Anche alcune procedure molecolari possono essere di aiuto per tale scopo.
DIAGNOSI DI RIPRESA LOCALE DELLA MALATTIA
Variabili patologiche e cliniche, come lo score di Gleason, il coinvolgimento delle vescichette seminali e/o dei linfonodi, lo status dei margini di resezione chirurgica e, soprattutto, l’andamento dei valori di PSA post-prostatectomia, possono essere d’aiuto nella predizione di una ripresa locale della malattia. La TRUS della fossa prostatica, in associazione con la agobiopsia TRUS-guidata, sono considerate procedure più sensibili, rispetto al DRE, per la rilevazione di una ricorrenza locale, soprattutto se i livelli serici del PSA sono bassi. Sebbene non sia in grado di individuare masse tumorali di dimensioni minime con livelli di PSA decisamente bassi (< 1 ng/mL), l’agobiopsia TRUS-guidata rappresenta attualmente il metodo più sensibile per la rilevazione della ripresa locale dell’adenocarcinoma prostatico. Tecniche di imaging come la scintigrafia con 111 In-capromab pendetide e la tomografia con [11 C]-colina (considerati dispositivi diagnostici migliori nella rilevazione dei tumori metastatici rispetto alle tecniche di imaging convenzionali), sono ritenuti complementari alla agobiopsia TRUS-guidata per l’identificazione di un’eventuale recidiva locale del cancro della prostata (Scattoni V., Montorsi F. et al).
RICERCA DEL PSA
Una quota considerevole dei pazienti colpiti da una ripresa della malattia, presenterà un innalzamento dei livelli serici di PSA prima che si possano descrivere evidenze cliniche o radiografiche di ripresa della malattia. Questo valore anomalo di PSA, presuppone la presenza di tessuto epiteliale prostatico, quasi certamente di natura neoplastica. Possiamo quindi introdurre il concetto di Ripresa Biochimica (RB) della malattia dove, con questo termine, ci si riferisce ad un qualsiasi livello di PSA serico rilevabile dopo prostatectomia, o un innalzamento dei valori di PSA serico successivo ad un periodo di PSA serico non rilevabile (si tiene conto del fatto che l’emivita del PSA è di 3.1 giorni, e che i livelli di PSA si azzerano intorno alla quarta settimana post-prostatectomia). Per tale ragione PSA screenings periodici dopo un intervento di prostatectomia radicale costituiscono la pietra miliare della sorveglianza per eventuali riprese di malattia.
Ci sono opinioni discordanti riguardo la soglia di PSA serico definibile come clinicamente significativa. La letteratura include singoli o multipli valori nell’intervallo 0.2-0.6 ng/ml. Comunque il valore maggiormente preso in considerazione come limite sembra essere 0.2 ng/ml e due successivi PSA serici maggiori di 0.2 ng/ml sono ritenuti dalla EAU sufficienti per iniziare una terapia. Spesso la diffusione delle cellule tumorali non viene rilevata con i normali studi istopatologici e di immagine. Per tale motivo, sono state sviluppate indagini immunocitochimiche e molecolari con l’intento specifico di individuare queste cellule metastatiche tumorali “occulte” a livello dei linfonodi regionali, del sangue periferico, del midollo osseo, per evitare che la ripresa della malattia venga smascherata ad uno stadio che renda vano un piano terapeutico. La rilevazione di Cellule Tumorali Disseminate (CTD) a livello del midollo osseo o dei linfonodi regionali, o di Cellule Tumorali Circolanti (CTC) a livello del sangue periferico è stata dimostrata in diverse condizioni cliniche neoplastiche, e vi sono numerose pubblicazioni in letteratura che dimostrano il significato clinico delle metastasi occulte. Allo stato attuale, il ritrovamento di tali cellule non ha una applicazione clinica, e questo campo di ricerca è confinato a studi sperimentali o a trials clinici di fase II. In futuro, una ricerca sistematica delle metastasi occulte potrebbe rientrare in programmi di sorveglianza clinica ed essere d’aiuto per identificare soggetti che necessitano di una terapia sistemica addizionale dopo una resezione chirurgica della neoplasia primaria portata a termine con successo. Proprio a proposito di tali terapie sistemiche, va detto che, sebbene queste abbiano l’intento di prevenire una ricaduta metastatica, la selezione dei pazienti è al momento basata solo sul loro grado di rischio di poter sviluppare una ripresa della malattia, senza effettivamente sapere se presentino le CTD o le CTC. Ciò sicuramente conduce a trattare, con agenti terapeutici che intaccano la qualità di vita del paziente, soggetti che probabilmente non ne necessitavano. Secondo quest’ultima considerazione quindi, sembrerebbe di grande importanza comprendere l’analisi delle CTD e delle CTC. Negli ultimi dieci anni, un gran numero di studi hanno dimostrato che la rilevazione di cellule tumorali metastatiche a livello del midollo osseo di pazienti affetti da cancro si correla ad un sostanziale peggioramento della prognosi in questi pazienti. Ciononostante, l’agoaspirazione del midollo osseo è dispendiosa e, in molti casi, decisamente sgradevole per il paziente, il che spesso ne preclude il campionamento. Per tale motivo, recentemente, gli sforzi si sono concentrati sulla rilevazione delle CTC nel sangue periferico di pazienti affetti da cancro, anche se, l’uso del CTC detection non fa attualmente parte della comune pratica clinica per diverse ragioni; in primo luogo, la mancanza della standardizzazione e della automazione delle tecniche richiede un adeguato addestramento allo svolgimento delle procedure del personale, il che si traduce in inevitabili differenze tra i risultati nell’ambito di laboratori diversi o anche degli stessi laboratori; in secondo luogo, l’uso di reagenti e metodi differenti tra i diversi centri di analisi conduce immancabilmente a differenze concernenti la sensibilità e la specificità dell’esame stesso; infine, sebbene il sangue periferico sia una fonte ideale per la ricerca delle CTC, data la possibilità di ottenerlo con un semplice prelievo venoso, il significato clinico delle CTC nel sangue periferico è meno rilevante di quello delle CTD nel midollo osseo.
RICERCA DI CELLULE TUMORALI CIRCOLANTI (CTC) (Panteleakou Z. et al)
Le Cellule Tumorali Circolanti (CTC), considerabili come la fase leucemica di tumori solidi, rappresentano gli elementi nel torrente circolatorio che produrranno metastasi (Mocellin S et al; Poste G e Fidler IJ). Staccandosi dalla neoplasia primaria, aderiscono alle pareti dei vasi sanguigni e linfatici e si introducono nell’albero vascolare, tramite il quale raggiungeranno organi permissivi ove prolifereranno liberamente (Koutsilieris M.). Le cellule tumorali riescono a sopravvivere all’interno del circolo sanguigno grazie alle acquisite modificazione genotipiche e fenotipiche, che le proteggono dai fenomeni apoptotici avviati dalla perdita degli ancoraggi con le altre cellule.
Un teoria ipotizzata, che necessita di ulteriori indagini sperimentali, suggerisce che gli elementi cellulari tumorali più invasivi (solo una piccola quota dei carcinomi primitivi) subiscano una Transizione da Epiteliale a Mesenchimale (Epithelial-to-Mesenchymal Transition; EMT). Tali cellule vanno incontro ad un aumento della motilità cellulare e ad un elevato numero di variazioni fenotipiche che le rendono in grado di infiltrare i tessuti adiacenti, attraversare la barriera endoteliale e spostarsi nell’albero vascolare (Yang J, Mani SA, Weinberg RA.; Thompson EW, Newgreen DF, Tarin D.; Bates RC, Mercurio AM.). La EMT sembra essere un processo fondamentale per la diffusione metastatica e si ritiene sia caratterizzata da una scarsa differenziazione istologica, da una diminuzione dei markers epiteliali (es. le cito-cheratine; Cyto-Keratins; CK) e da un aumento di quelli mesenchimali (es. le vimentine) (Willipinski-Stapelfeldt B. et al, Lang SH et al). A quanto pare questo processo patologico contribuisce alla progressione neoplastica, soprattutto facendo riferimento all’invasione locale ed alla metastatizzazione (Bates RC, Mercurio AM.; Willipinski-Stapelfeldt B. et al; Lang SH et al; Arias AM.). Una volta raggiunti gli organi bersaglio (i tessuti ospitanti), queste cellule mesenchimali potrebbero recuperare la propria identità epiteliale, grazie ad una Transizione Mesenchimale-Epiteliale (Mesenchymal-Epitelial Transition; MET), ripristinando così la caratteristica abilità nel proliferare (Christiansen JJ, Rajasekaran AK.). Attualmente gli studi condotti non sono riusciti a confermare la presenza di questo processo EMT nei carcinomi anche se vi sono evidenze in vivo di questo fenomeno (si tratta comunque di evidenze non convincenti). Inoltre, le cellule carcinomatose non necessiterebbero di sottoporsi ad una drammatica conversione cellulare per raggiungere quei cambi morfologici e fenotipici sufficienti per la metastatizzazione (Tarin D., Thompson E.W., Newgreen DF.).
La rilevazione delle CTC nel sangue di pazienti con adenocarcinoma prostatico sarebbe potenzialmente in grado di fornire informazioni cliniche utili per prevedere la progressione tumorale, per ipotizzare una prognosi a lungo termine e per identificare pazienti che potrebbero sottoporsi con successo a terapie curative. La sopravvivenza media per soggetti con metastasi ossee e con una malattia che non risponde a terapia ormonale, è compresa tra i 16 ed i 18 mesi (Oh W.K., Kantoff P.W.). Sembrerebbe dunque interessante e clinicamente significativa, l’individuazione precoce delle CTC (Mukamel E, Hanna J, De Kernion JB.), soprattutto per quanto concerne le scelte terapeutiche. I metodi attualmente più importanti nell’individuazione delle CTC nel sangue periferico di pazienti con cancro prostatico sono la citoflussometria e la Reverse Trancriptase-Polymerase Chain Reaction (RT-PCR). In generale, questi metodi sono carenti in quanto a specificità a causa della presenza di altri elementi cellulari definibili “contaminanti”, come gli eritrociti, i leucociti e le normali cellule epiteliali. Questa osservazione ha indirizzato gli sforzi di numerosi ricercatori verso la messa a punto di tecniche di “arricchimento” delle cellule tumorali affinché queste possano essere più facilmente detectate (Makarovskiy AN et al). La tecnica che sembra essere in grado di adempiere a tale compito prevede la centrifugazione a gradiente di densità (Morgan T.M., Lange P.H., Vessella R.L.), la filtrazione, la lisi e la Selezione Immuno Magnetica (SIM; Immuno Magnetic Selection; IMS). La centrifugazione a gradiente di densità, basata sulla peculiare densità delle cellule tumorali epiteliali, separano le CTE e le cellule mononucleate sanguigne (densità < 1.077 g/mL) dalle altre cellule sanguigne (eritrociti e granulociti; densità > 1.077 g/mL) (Morgan T.M., Lange P.H., Vessella R.L.). Le tecniche SIM aumentano la sensibilità e la specificità della RT-PCR. Sono basate sulla specificità delle interazioni antigene-anticorpo e dalle proprietà fisiche delle micro sfere magnetiche (magnetic micro beads) che permettono la separazione di cellule in una popolazione cellulare eterogenea, mantenendo le differenze antigeniche di superficie tra le diverse linee subcellulari. Una tecnica SIM è rappresentata dalla selezione positiva di cellule epiteliali da cellule mononucleate con anticorpi antiepiteliali. Solitamente le cellule sanguigne mononucleate vengono legate da micro sfere magnetiche (di dimensioni dell’ordine di nanometri) rivestite da anticorpi cellule-specifici. Tenendo presente il fatto che le cellule dell’adenocarcinoma prostatico presentano fondamentalmente caratteristiche epiteliali, i bersagli anticorpali più sfruttati sono sia antigeni epiteliali (come CK8, CK18, CK19; lo Human Epithelial Antigen o HEA; la Molecola per l’Adesione Cellulare Epiteliale o MAC Ep o Epithelial Cell-Adhesion Molecule o Ep CAM) che antigeni organo-/tumore- specifici (come il PSA, il Prostate-Specific Membrane Antigen o PSMA, il CarcinoEmbryonic Antigen o CEA, il Recettore del Fattore di Crescita Epidermico Umano o Human Epidermal Growth Factor Receptor o HEGFR) (Kruger W. et al). La quota di cellule “arricchite” viene in seguito sottoposta all’isolamento del mRNA (grazie all’uso di micro sfere magnetiche con oligo-desossitimidina; oligo-deoxythymidine magnetic beads) che può essere disponibile per la successiva RT-PCR (Zigeuner RE et al; Racila E. et al; Meye A. et al; Ghossein RA et al). Lo stesso campione cellulare può anche essere utilizzato per la separazione del DNA, per lo sviluppo di immunoanalisi, per l’isolamento e la purificazione di proteine ed altre biomolecole. Nonostante i suoi vantaggi, la SIM presenta diversi inconvenienti come la possibile perdita di cellule tumorali durante le fasi di “arricchimento” (Morgan T.M., Lange P.H., Vessella R.L.). Inoltre, con questa tecnica c’è il rischio di non rilevare le subpopolazioni neoplastiche più aggressive a causa della perdita o almeno della riduzione dell’espressione dei markers epiteliali che si verifica durante la EMT (Thompson EW, Newgreen DF, Tarin D.; Kong D et al). Bisogna anche tenere presente che alcuni markers epiteliali possono essere espressi da cellule non epiteliali o non derivanti da cancro prostatico, e ciò conduce inevitabilmente ad un aumento nel riscontro dei falsi positivi. Peraltro, tra le limitazioni della tecnica SIM non possiamo omettere di citare gli elevati costi e tempi di realizzazione, nonché la variabilità nei risultati ottenuti da addurre alla mancata standardizzazione di metodi e reagenti (Loberg RD et al). La tecnica che prevede l’uso delle micro sfere appena menzionate viene sfruttata dal CellSearch™ system, un sistema che prevede l’arricchimento e la rilevazione immunocitochimica degli elementi cellulari sotto indagine. Si tratta di un sistema, approvato dalla US Food and Drug Administration, che utilizza una combinazione tra la marcatura immunomagnetica e la microscopia digitale automatizzata con l’intento di detectare le CTC. In particolare si serve di particelle microscopiche di ferro (chiamate ferrofluids) ricoperte con anticorpi andi-EpCAM per arricchire immunomagneticamente le cellule epiteliali presenti nel sangue periferico prelevato dal paziente (Riethdorf S. et al). Dopo l’“arricchimento” cellulare abbiamo la immunocolorazione, cui segue la lettura dei campioni grazie ad un microscopio automatizzato (Cristofanilli M. et al).
I benefici che potrebbero scaturire servendosi del CellSearch™ system non sono stati comunque ancora dimostrati. Per quanto riguarda i metodi di determinazione della presenza di eventuali CTD, differenti studi si sono riproposti di individuare le CTD a partenza da adenocarcinomi prostatici e da altri carcinomi. Un approccio per identificare le CTD è rappresentato da analisi immunocitochimiche che si servono di anticorpi monoclonali diretti contro antigeni epiteliali o tumore-associati. A tal proposito, le cito-cheratine (Cyto-Keratins; CK) costituiscono ormai la categoria di markers proteici più accettata ed utilizzata per la rilevazione di cellule tumorali di origine epiteliale in tessuti mesenchimali come il midollo osseo, il sangue, i linfonodi. L’analisi immunocitochimica è solitamente abbinata alla centrifugazione con gradiente di densità, procedure immunomagnetiche o metodi di filtrazione basati sulle dimensioni che “arricchiscono” le CTD per renderne più semplice la successiva identificazione (Figura B). Una possibile maniera di miglioramento delle attuali tecniche di CTD detection sarebbe proprio quella di rendere più efficienti tali metodiche di “arricchimento” lavorando sui gradienti di densità e sulle micro sfere magnetiche legate ad anticorpi. L’uso di dispositivi automatizzati per l’analisi microscopica dei vetrini caricati con il campione, potrebbe velocizzare la lettura di questi ultimi e facilitarne la riproducibilità (Figura B). Tra i sistemi automatizzati disponibili in commercio, il CellSearch™ system ha attirato notevolmente l’attenzione data la sua capacità di fornire, con una procedura automatizzata, un “arricchimento” immunomagnetico ed una colorazione che tinge le CK in un campione di sangue (vedi Ricerca delle CTC). Ricerca di CTD nel midollo osseo di pazienti con un tumore epiteliale come l’adenocarcinoma prostatico. Il processo inizia con la centrifugazione con gradiente di densità di Ficoll per isolare Cellule MonoNucleate (CMN) ed utilizza anticorpi anti-CK. La rilevazione delle CTD marcate viene effettuata automaticamente e le cellule sospette sono raccolte in una galleria di immagini. Una valida alternativa allo studio immunocitochimico per la ricerca di Cellule Tumorali Disseminate (CTD) comprende alcune procedure molecolari. Metodi come quello che sfrutta la Polymerase Chain Reaction (PCR), permettono di amplificare esponenzialmente piccoli campioni di DNA, così che anche una piccola quota di cellule tumorali può essere riconosciuta nell’ambito di una popolazione cellulare eterogenea; chiaramente, perché questa procedura possa essere sfruttata adeguatamente, le cellule tumorali devono presentare variazioni nel DNA o nel messenger RNA (mRNA) trascritto al fine di poter essere distinte dalle altre cellule presenti nel campione. Molti gruppi di studiosi hanno valutato l’attendibilità della ricerca di cellule esprimenti PSA tramite Reverse Transcriptase-Polymerase Chain Reaction (RT-PCR) come metodo per migliorare la stadiazione del cancro prostatico e per prevederne la possibile ripresa di malattia dopo prostatectomia radicale. Questa tecnica prevede la trascrizione inversa di messenger RNA (mRNA) circolante, a dare una catena di DNA complementare che verrà amplificata in modo da fornirne un elevato numero di copie. Lo scopo è quindi quello di servirsi di una specifica sequenza di mRNA per controllare la Ripresa Molecolare (RM) della malattia.
La produzione tessuto-specifica di PSA delle cellule epiteliali prostatiche offre la possibilità di utilizzare l’espressione del gene dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA) come marker per l’identificazione delle metastasi occulte del cancro prostatico. Chun-Ling Gao et al nel 1999 hanno dimostrato che la positività per l’espressione del PSA detectata con RT-PCR in cellule del midollo osseo non è correlata al PSA serico, allo score di Gleason o ai parametri dello stadio patologico.
È però anche vero che la positività per questa stessa analisi è strettamente correlata con una precoce ripresa di malattia (inoltre è da sottolineare la indipendenza della ricerca dell’espressione PSA nel midollo osseo mediante RT-PCR come marker prognostico). In questo studio si è effettuata, durante l’intervento di prostatectomia, un’agoaspirazione unilaterale di midollo osseo da cresta iliaca anteriore in 116 pazienti tra Febbraio del 1995 e Settembre del 1997. Sono state eseguite un minimo di 3 reazioni RT-PCR PSA su ciascun paziente; per definire una situazione di positività erano necessari almeno 2 test positivi. I pazienti sono stati seguiti per i 14.7 mesi successivi all’intervento.
I risultati sono stati che cellule esprimenti PSA sono state rinvenute nel midollo osseo di 51 dei 116 pazienti (44.0%) quando 2 su 3 test RT-PCR PSA erano positivi; questo numero si innalzava a 77 su 116 (66.3%) quando si teneva conto di ogni singola positività. Di questi 51 casi, 25 (49%) presenta una malattia organo-delimitata e 26 (51%) presentano una malattia non organo-delimitata.
La positività all’espressione del PSA rilevata tramite RT-PCR non risulta correlata con età, razza, PSA serico pre-trattamento, stadio clinico o stadio patologico; ciononostante, la sopravvivenza a 2 anni dalla prostatectomia era del 96.6% per i soggetti negativi alla RT-PCR, mentre questo valore scendeva al 77.5% nei pazienti positivi al suddetto esame (p = 0.0541) (Gao C.L. et al, 1999).
In caso di adenocarcinoma prostatico localmente avanzato, al momento della prostatectomia radicale si tende ad effettuare una linfoadenectomia pelvica con il fine di verificare l’eventuale infiltrazione neoplastica a tale livello; tale procedura assume notevole importanza clinica se si considera che lo stato linfonodale quando viene effettuata la chirurgia rappresenta il fattore determinante la progressione della malattia più importante in pazienti senza evidenza di metastasi sistemiche. C’è una evidenza scientifica, dimostrata da diversi studi, che suggerisce che una terapia adiuvante, cominciata immediatamente dopo una procedura definitiva locale (prostatectomia radicale associata a linfoadenectomia pelvica o terapia radiante), può ridurre la progressione e aumentare la sopravvivenza in pazienti con un cancro localmente avanzato e N+ (linfonodi positivi per infiltrazione neoplastica) (Bolla M et al 2002; Bolla M et al 1997; Messing EM et al). Dunque, la rilevazione dell’interessamento linfonodale neoplastico potrebbe essere utilizzato per stratificare i pazienti con adenocarcinoma prostatico localmente avanzato, individuando i soggetti che potrebbero trovare effettivo beneficio nella terapia adiuvante. È certo che, pazienti con tumori ad estensione extraprostatica, con interessamento del tessuto adiposo periprostatico o delle vescichette seminali (T3a o T3b), presentano una percentuale di rischio maggiore di progressione e presentano anche una prognosi peggiore, persino in caso di mancata evidenza istopatologica di metastasi linfonodali (Epstein JI 2000; Catalona WJ e Smith DS). Sembra quindi probabile che una certa quota di questi pazienti siano caratterizzati dalla presenza di cellule metastatiche del cancro prostatico a livello linfonodale, e che questi elementi cellulari tumorali non siano stati rilevati dai convenzionali accertamenti istopatologici. Nel nostro studio, riportiamo l’incidenza di metastasi occulte nei linfonodi di pazienti affetti da adenocarcinoma prostatico, con estensione locale pT3 e linfonodi N0 (linfonodi negativi, secondo le convenzionali procedure di indagine, per infiltrazione neoplastica). Si potrà notare che, pazienti con metastasi linfonodali occulte, presentano una prognosi decisamente peggiore rispetto a quelli con linfonodi esenti da malattia, e simile a quelli con evidenza istopatologica di interessamento linfonodale.